Una storia scritta a quattro mani

23 | 05 | 2023

Una storia scritta a quattro mani

La vita è fatta di incontri.

Migliaia di vite che incessantemente si incastrano come i pezzi di un puzzle, si scontrano perché hanno opinioni differenti, o anche solo si sfiorano.

In questo groviglio di strade, se sei particolarmente fortunato, avrai la possibilità di incontrare una persona speciale che lascerà su di te un segno indelebile del suo passaggio e che senza accorgertene ti aiuterà a crescere.

Ricordo ancora vividamente il giorno in cui io e i miei compagni, che avevamo appena incominciato la prima media, aspettavamo di conoscere il professore di storia dell’arte. 

Varcò la soglia della classe un uomo piccolo, tarchiato, pelato, con due baffetti grigi che in parte gli coprivano le labbra sorridenti e dall’andatura oscillante, che ricordava molto Charlie Chaplin. 

Un uomo, una caricatura; in effetti vi era anche chi gliela aveva fatta e lui orgogliosamente l’aveva appesa sulla porta d’entrata, subito sotto la scritta “aula di arte”.

“Mezz’ora al giorno, toglie l’Ocelli di torno”: era la sua frase preferita e per noi alunni era diventato un vero e proprio mantra. 

I disegni che ci assegnava erano infatti così fuori dall’ordinario e così impegnativi da richiedere ore ed ore di lavoro, quasi un incubo per tutti quelli studenti senza particolari doti artistiche. Ma il punto era proprio questo: lui era in grado di cogliere in ognuno di noi qualcosa di straordinario che noi non sapevamo di avere.

Molti sostengono che i ragazzi siano pezzi di creta grezza da modellare. Lui ci vedeva più come opere già realizzate, il suo compito non era quello di plasmarci ma al contrario quello di aiutarci a strappare il telo che ci copriva.

Rimaneva ad osservarci per due interi anni scolastici e poi in terza media dava inizio al suo piano personale studiato per ognuno di noi.

Promotore di moltissime iniziative extrascolastiche era impossibile non acconsentire a partecipare ad almeno ad una di esse. 

Nel mio ultimo anno alla scuola secondaria di primo grado aveva organizzato: un laboratorio di ceramica per la creazione di una stele fuori dalla scuola sul tema della pace, la realizzazione di due panchine rosse contro la violenza sulle donne da donare al Comune e la famosissima partita del cuore, una partita di calcio tra alunni, professori e genitori, per raccogliere fondi a favore della “Casa di Leo”, una struttura ricettiva per le famiglie dei bambini ricoverati in ospedale.

Infine un concorso di pittura al quale ero stato praticamente costretto da lui stesso ad iscrivermi. 

Le mie doti come pittore potevano essere paragonate a quelle di un uomo preistorico che disegnava graffiti rupestri, quindi era veramente impossibile riuscire a capire cosa vedesse in me.

Dopo aver realizzato un paio di tele senza particolare entusiasmo e con scarso risultato, giunse il momento più duro e difficile della mia vita.

Mi svegliai una mattina che stavo benissimo e la sera ero in un letto di ospedale con una diagnosi di malattia cronica.

Una volta rientrato a scuola, dopo il ricovero, mi recai nell’aula del Professore Ocelli, dicendogli che mi ritiravo dal concorso, non essendo più in grado di dipingere: era troppo difficile per me utilizzare un pennello.

Mi lasciò parlare senza mai smettere di sorridere ma, quando stavo per andarmene, mi disse: ” Mi spiace, ma non posso condividere e tanto meno accettare le tue giustificazioni. Continui ad essere iscritto al concorso perché tu puoi fare tutto quello che facevi prima. Devi semplicemente trovare un modo diverso per farlo. Ricordati, non si dipinge solo con i pennelli. Ora vai e torna con un capolavoro.”

Fuori da quella classe mi sentivo sopraffatto da emozioni contrastanti: era come se qualcuno mi stringesse con una mano il cuore, impedendogli di pompare, e contemporaneamente mi sferrasse un pugno nello stomaco.

Ero arrabbiato, anzi infuriato. Come poteva non capire che le mie priorità erano cambiate? Non riuscivo più a fare cose semplicissime come studiare, uscire in bicicletta, giocare una partita di pallone…quello stupidissimo concorso certo non mi interessava anzi, diciamola tutta, non mi era mai interessato.

Riposi tele, colori e pennelli in un angolo della mia stanza con l’intenzione di dimenticarmene.

Ma una sera al termine dell’ennesima giornata disastrosa, l’occhio mi cadde proprio su una di quelle cornici bianche ed immacolate che sembravano quasi sfidarmi.

Con rabbia ne afferrai una, presi i colori ed iniziai a frugare freneticamente tra gli attrezzi di mio padre.

I miei genitori mi guardavano impauriti e probabilmente convinti stessi cercando qualcosa per fare a pezzi quel quadro non ancora realizzato.

Quando estrassi da una borsa la lampada che mio papà utilizzava per saldare, i loro volti sbiancarono, erano nel panico più completo. Mi seguirono in garage incapaci di pronunciare una parola, increduli ed intimoriti da quello che avrei potuto fare.

Io, senza dare alcuna spiegazione, posi la tela sul tavolo da lavoro e ci versai sopra tre enormi macchie di colore: rosso come la rabbia che provavo, giallo come il risentimento per ciò che avevo perso ed infine il nero, che bene si indentificava con l’idea che avevo del mio futuro.

A quel punto accesi la fiamma, mio padre fece un passo in avanti e, forse preoccupato che potessi dar fuoco alla casa, mi chiese se avessi bisogno d’aiuto.

Non risposi ma il mio sguardo in fiamme fu sufficiente, non era il caso di insistere oltre: si misero entrambi in un angolo ad osservarmi stendere il colore sulla tela bianca con l’aiuto del calore della fiamma.

Il risultato fu un’esplosione: un pianeta terra che collassava e perdeva pezzi.

Lasciai asciugare la mia opera per qualche giorno ed infine la portai al Professor Ocelli. Lui la guardò senza dire una parola, prese la tela e la pose tra le decine di quadri già pronti per il concorso. Gli fece spazio ponendola direttamente di fronte alla porta, in modo tale che chiunque fosse entrato non avrebbe potuto non vederla. Al quel punto si girò, come sempre mi sorrise e mi fece l’occhiolino.

Mi congedai senza sapere se avessi realizzato un buon lavoro, se quello era il “capolavoro” che si aspettava da me, ma poco mi importava. Nella testa continuavano a rimbalzarmi le sue parole: dovevo solo cercare una strada alternativa per raggiungere la meta.

Quella tela rappresentò la mia svolta, il fischio d’inizio del secondo tempo della mia vita.

Imparai presto a cercare nuove modalità per raggiungere i miei obbiettivi.
Così ricominciai a studiare, ad uscire in bicicletta con gli amici, a giocare a pallone.

Ancora oggi il quadro è appeso sopra il mobile d’entrata di casa mia a ricordarmi che non ho limiti e quando me li pongo, non è per il mio fisico ma è la mia mente ad ingannarmi

Se ognuno di noi è l’artefice del proprio destino e scrive la propria storia, nella mia ci sono sicuramente due autori.

In ricordo del più grande uomo che io abbia conosciuto, strappato, troppo presto, all’amore dei suoi studenti.

 

Simone.


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