C’era una volta una ragazza.
Che si vedeva bella.
Che si vedeva magra.
Che si vedeva grande.
Poi la notizia.
Diabete di tipo 1.
Quella ragazza ha iniziato a vedersi brutta.
A vedersi grassa.
A vedersi malata.
E poi,
iniziò a non vedersi.
A non vedersi più in nessun luogo,
in nessun colore,
in nessuno spazio.
Non vedeva più nemmeno la sua malattia.
Niente.
Si toccava, ma non si sentiva.
Si parlava, ma non si ascoltava.
Si muoveva, ma non si spostava.
Si cercava. ma non si trovava.
Così smise di cercarsi.
Smise di aiutarsi.
Smise di essere.
Smise con l’insulina,
smise con le misurazioni,
smise con il sentire,
smise con l’accoglienza,
smise con l’obiettività.
Smise di essere donna.
Iniziò quindi a dimagrire,
a sparire,
a farsi sopraffare da tutto e da tutto.
Iniziò a riempirsi di nulla.
Di vuoto.
Fino a sparire.
E poi,
una notte,
si ricordò della sua presenza,
della sua vita,
del suo corpo,
della sua pelle,
dell’insulina,
della glicemia,
quando provò il gusto del niente,
si ricordò della vita.
E allora ricominciò con l’insulina,
con le misurazioni,
ricominciò a mettere un piede di fronte all’altro,
iniziò a scrivere per ricordare,
per capire che cosa fosse successo.
E si ritrovò,
tra quelle pagine,
quelle parole,
giorno dopo giorno.
E no,
oggi no,
non mi vergogno di farmi l’insulina in pubblico.
Perché mi ricorda che sono viva.
E dovrebbero ricordarsene tutti.
Anche chi,
tutto questo non l’ha mai provato.
Anche chi, tutto questo, non sa nemmeno che altri l’abbiano provato,
perché il sorriso,
l’amore,
gli amici,
la vita,
un aiuto,
tutto questo,
te lo fanno interiorizzare.
E si continua,
a camminare.
Sempre con l’insulina a vista.
Sempre,
con la vita in palmo di mano.
Con amore
Sostengo la nostra battaglia.